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Storia per chi ha il cuore forte
20 maggio 2008

Prologo --- Era una notte buia e tempestosa...

...e state pur certi che io e Pego ce ne rendevamo conto perfettamente. Diciamo anzi che Pego era troppo eccitato per accorgersene: continuava a parlare tenendosi aggrappato al mio braccio, e stringeva tanto da farmi male.

“Devi renderti conto che non mi capita spesso una notte così,” mi gridava in un orecchio, “e me la voglio gustare appieno!” Per la cronaca, la notte di cui parlava Pego era quella che stavamo trascorrendo su una collina in mezzo a un acquazzone scrosciante.

“Come puoi considerare divertente questa situazione?” ribattei. “La nostra... Pardon, la mia macchina è irrimediabilmente fusa, siamo sulle pendici di un colle battuto da una tormenta spaventosa, i fulmini hanno appiccato il fuoco tutt'intorno alla collina, intrappolandoci, e i venti lo stanno spingendo verso la sommità su tutti i lati – cosa assurda, data la pioggia – stanando branchi di lupi affamati e spingendoli verso di noi, l'unico riparo sembra essere quella casa diroccata in cima, piena di sussurri, lamenti e grida, l'unico cartello segnaletico che abbiamo incontrato lungo la strada indicava questa direzione con la scritta semicancellata “Inf..no,” oggi mi scadeva l'assicurazione sulla vita e ho finito i fazzolettini di carta... Cosa vuoi di più? Che uno zombi venga ad offrirci un ombrello?!”

“No, l'ombrello non ce l'ha...”

La risposta mi lasciò interdetto. Mi voltai verso destra, il lato dove Pego mi stava tenendo il braccio, senza rendermi conto che la sua voce mi giungeva da sinistra. Infatti a destra non c'era lui. Aggrappato al mio braccio c'era uno zombi lurido, sbrindellato, viscido, putrescente e senza ombrello il quale abbozzò alla meno peggio un sorriso e fece “ghgn!”

Urlai. Urlai tanto che lo zombi scappò ululando facendosela sotto e richiamando una torma ululante di lupi che lo inseguirono fino alla base della collina, lo sbranarono e morirono avviluppati dalle fiamme dell'incendio che intanto continuava a salire verso di noi. Giungemmo alla casa, abbattemmo la porta (a dire il vero ci eravamo limitati a bussare, ma il legno era marcio...) e ci facemmo strada verso l'interno.

1.

La giornata era cominciata sotto i migliori auspici. Avevo spedito moglie e figli dalla suocera, avevo comperato quello che il colosso di Rodi avrebbe modestamente definito “dieci giumelle di semi di zucca”, avevo orientato con precisione infinitesimale il parabolone verso il mio satellite preferito e mi accingevo a gustarmi in diretta la partita “Imperial Shonogakato - Giant Nonokatsu” del campionato di serie C giapponese quando squillò il telefono. Non ho la capacità di indovinare dallo squillo chi sia il mio interlocutore, però ho l'abitudine di pensare sempre a Pego quando qualche campanello suona in momenti inopportuni: finora non ho mai sbagliato.

“Ciao, sono io.” Era lui. “Senti, ho un'idea.” Cominciava sempre con un'idea. “Ho letto che c'è una troupe cinematografica a Punta Pelda, vicino al faro. Ma non è una troupe qualsiasi: stanno girando dei filmati da introdurre in un videogioco, e in genere usano un sacco di comparse: vieni anche tu?” Era un modo di chiedermi di portarlo fin lì, visto che non ha la macchina.

Devo spezzare una lancia a favore di Pego. Non è stupido né incosciente. Anzi, ama la vita tranquilla, ma tale anelito è fortemente contrastato dal suo desiderio di affermarsi nel campo dei computer, il che lo porta a intrufolarsi in seminari che non capisce, a farsi sbattere fuori dai convegni perché russa, a riempire di messaggi tutta Internet e a comperare chili di riviste col DVD in omaggio. Ora gli si presentava un nuovo modo di sfogare il suo frustrato presenzialismo virtuale: infilare il suo faccione in un videogioco. Decisi di dargli corda, male non poteva farne, e Punta Pelda non era così lontana. Come ciliegina sulla torta, con un cielo così terso e un'aria tanto calma doveva esserci una vista meravigliosa sugli isolotti.

Dissi a Pego di aspettarmi e partii dopo aver avviato il videoregistratore allo scopo di vedere più tardi la partita. Chiaramente, nella fretta introdussi la cassetta sbagliata (conteneva un film che da lungo tempo desideravo vedere e che un amico mi aveva prestato raccomandandomi di trattarglielo bene) e dimenticai di sintonizzare il registratore, cosicché al ritorno mi sarei sorbito l'ennesimo puntatone di C'è Posta per Te. Mi misi al volante e partii.

Pego mi aspettava sul marciapiede davanti a casa sua in bermuda beige, camicia hawaiana e con un valigione di vestiti di ricambio per non essere colto impreparato nemmeno da Steven Spielberg in persona. La valigia diede il colpo di grazia agli ammortizzatori posteriori quando venne scaraventata nel bagagliaio, mentre Pego stesso si occupò di quelli anteriori.

Si dice che le formiche di alcune varietà assumano automaticamente un ruolo diverso a seconda della loro collocazione nel formicaio: se un'operaia attraversa un cunicolo disastrato, sa di doverlo mettere a posto; se si trova all'esterno, sa di dover procacciare cibo. Se Pego si trova sul sedile anteriore, ritiene di essere indispensabile come navigatore e comincia a rovistare nella tasca della portiera fino a trovare la carta più adatta a descrivere il viaggio, che entrambi sapremmo fare a occhi chiusi.

“OK, fra un po' incontriamo la provinciale, mezzo chilometro e svolta a destra, dritto fino in fondo e ci siamo.” Quantomeno la conversazione non languiva e il viaggio giungeva al termine. “Che dici, ci prenderanno come comparse?”

“Non vedo perché non dovrebbero prenderti, animato come sei dal tuo entusiasmo. Io, comunque, mi limiterò a guardare...”

2.

Temarate Massagese è un bel paesino che non ha nulla a che vedere con me, con Pego o con questo racconto. È steso placidamente su un pendio di Col Ciffone, ai piedi dei Monti Aurasi, e deve la sua notorietà, limitatamente al comprensorio dei Monti Aurasi, per il fatto di trovarsi vicino a Massago, località dove l'ultima domenica di aprile si svolgono i campionati mondiali di Gioco dell'Oca. In quell'occasione, Temarate Massagese diventa un paese fantasma: anche i gatti vengono trasferiti a Massago, mentre un servizio di autolettighe si occupa del trasporto dei malati.

Quando giungemmo in vista del faro, notammo che Punta Pelda era più deserta di Temarate Massagese nell'ultima domenica di aprile. Pareva che la troupe avesse già smobilitato. Solo un gabbiano guardava nella nostra direzione. Tutt'a un tratto, il tranquillo volatile ebbe una qualche strana idea e volò sulla mia auto.

Nessuno, sebbene siano in molti a pensarlo, aveva mai trattato la mia auto come una pubblica latrina fino a quel momento... Non so quanto pesi un escremento di gabbiano, né mi interessa saperlo; fatto sta che nel preciso istante in cui quella sostanza toccava la mia carrozzeria un pneumatico scoppiò. Il gabbiano cantò il suo grido di vittoria e se ne andò senza chiedere scusa.

Contai fino a dieci molto lentamente. Poi ripassai le tabelline fino a quella del dodici. Seguirono i nomi dei sette nani. Non bastava. Scesi dalla macchina, presi la rincorsa e tirai una capocciata contro le solide pareti del faro. Ciò ebbe finalmente il potere di calmarmi.

“Ki essere a kvest'ora?”, fece una voce dall'interno. La porta si schiuse e lasciò sporgere la testa di un uomo anziano: capelli bianchi sparati per aria, baffi folti, pesante accento tedesco, camice bianco e aria stralunata.

“Mi scusi se approfitto in questo modo poco ortodosso della sua proprietà, ma avevo bisogno di sfogarmi. Sa qualcosa della troupe che doveva girare questo pomeriggio davanti al faro?''

“Io non ha fisto nessuno. Ma preco, Lei und suo amiko, entrate: fostro katorcio non può prosegvire...”

“Grazie, lei è molto gentile.” Mi voltai verso il katorcio: “Pego!”

Dal momento in cui era scoppiata la gomma, in Pego avevano cominciato a sorgere strani pensieri. Cominciò a sentirsi in colpa, ma non era tutto qui. Cominciò a rendersi conto che sul giornale aveva letto della presenza della troupe per lunedì, e oggi era appena domenica. Scoppiò in un pianto dirotto consumando l'unico pacchetto di fazzolettini rimasto in macchina, soffiandosi il naso in uno straccio unto d'olio da motori e pulendosi il viso unto con un'immacolata pelle di daino. Uscì, sbatté la portiera e si appoggiò alla macchina che prese a indietreggiare fino a raggiungere la scogliera fermandosi sul ciglio del precipizio.

Appena Pego ci ebbe raggiunti, l'uomo ci fece accomodare all'interno del faro e ci condusse in una stanza probabilmente adibita a salotto, vista la presenza di due poltrone e di una specie di televisore dotato di un quadrante irto di manopole, pulsanti e levette. Poi si scusò dicendo: “Perdonatemi, ma ho dimenticato di chiudere la porta” e si allontanò. Rimasti soli, io e Pego ci guardammo: negli occhi del mio amico s'era insinuata la più cupa disperazione:

“Non ti ricorda nessuno, quell'uomo?”, chiese con voce tremante.

“Pare il tipico scienziato da film, stile Einstein: ha anche l'accento...”

Mentre pronunciavo quest'ultima frase, mi resi conto che la frase con cui si era accomiatato per chiudere la porta era stata pronunciata in un italiano perfetto, a differenza di tutte le altre, e con una punta di accento inglese. Allora quell'uomo stava nascondendo qualcosa! Pego, sempre più disperato, offrì una spiegazione:

“A me sembra tanto il professor Eltinore Shlathkerwridge!”

“E chi sarebbe?”

“Quello che mesi fa aveva...”

Il resto della frase si perse in un feroce frastuono di chiavi, catenacci, chiavistelli, paletti, puntelli, serrature a dieci mandate e catenelle. Poi, il falso professore pazzo tedesco (o professore pazzo falso tedesco, o falso professore vero pazzo falso tedesco, o...) ricomparve sulla soglia del “salotto” fregandosi le mani.

“Sapete, io sono molto geloso della mia privacy.”

3.

La situazione era tutt'altro che chiara, ma almeno eravamo in superiorità numerica, quindi tentammo di sopraffare il professor Shlathkerwridge per costringerlo a liberarci. Quando il professore chiamò il suo servitore, Hrung, ci trovammo in parità numerica. Questo rapido conteggio non teneva conto, ovviamente, della massa muscolare dei contendenti e dei diversi punti di vista nei confronti della violenza, della tortura e dei diritti umani in generale. La realtà, invece, tenne ben conto di questi fattori, che pendevano smodatamente a favore di Hrung, e presto ci trovammo pesti e doloranti, legati alle poltrone con un numero imprecisato di giri di corda, e privi di ogni voglia di tentare la fuga.

Fummo presto lasciati soli. Entrambi eravamo estremamente preoccupati per la situazione, ma Pego tremava vistosamente. Sembrava terrorizzato. Provai a distrarlo proponendogli una partita di morra cinese, ma con le mani legate il gioco mi sembrava poco interessante e soggetto a contestazioni.

Finalmente mi feci coraggio e gli chiesi: “Chi hai detto che è quel tizio?”

“Il professor Eltinore Shlathkerwridge,” disse con un fremito di terrore. “Quello che qualche mese fa aveva...”

L'ingresso del professore interruppe la sua spiegazione.

“Chi è lei?", chiesi, visto che Pego non riusciva a dirmelo... "Che cosa vuole?”, lo incalzai con voce ferma e sprezzante. Pego, in realtà, potrebbe obiettare che il suono che uscì dalla mia bocca non era propriamente una “voce ferma”, ma le mie intenzioni erano quelle.

“State per fare un lungo viaggio...” Indicò dei caschi fissati alle poltrone al di sopra delle nostre teste. A un suo cenno, Hrung li abbassò su di noi (sarebbe più corretto dire che li calcò con forza disumana), poi si avvicinò a un quadro elettrico dall'aria molto pericolosa. Per qualche motivo, ogni volta che posavo gli occhi su qualche particolare, quella stanza mi sembrava sempre meno un salotto e sempre più un laboratorio. Infine Hrung abbassò un grosso interruttore a lama che generò una cascata di scintille, e il mondo si fece nero.

4.

Rinvenni al suono della voce di Pego che mi chiamava: “Nonna Adelina!”

Pian pano si fece strada la sensazione che non stesse chiamando proprio me, ma ormai ero sveglio. Aprii gli occhi, e vidi che ero steso sul pavimento in terra battuta di un rudere, forse una vecchia casa scoperchiata dal vento e con le mura diroccate. Pego, a poca distanza da me, continuava ad invocare ora un parente, ora l'altro. Lo scossi finché non aprì gli occhi e, vedendomi, lanciò un urlo lancinante. Mi sollevai di scatto andando a incocciare contro un moncone di trave penzolante da quello che un tempo era il soffitto, e risposi al suo grido con un profondo ululato.

Terminate così le presentazioni, uscimmo dal rudere per trovarci di fronte a un paesaggio spettrale. Il cielo nero era un vorticare di nubi temporalesche che si accavallavano, roteavano, formavano vortici e scaricavano fulmini in lontananza. Una collina brulla, di fronte a noi, culminava con un castello diroccato. Tutt'intorno a noi e alla collina si stendeva un bosco nero e impenetrabile. Un viottolo, indicato dall'inquietante cartello “Inf...no,” saliva serpeggiando per la collina fino al maniero abbandonato. Questa breve descrizione, ovviamente, tralascia alcuni particolari che renderebbero la scena particolarmente inquietante, come il cimitero abbandonato, la strana faccia ghignante che si disegnava sulle nuvole ad ogni saetta, gli ululati che provenivano dal bosco, la pioggia che scrosciava con sempre maggior impeto, le urla e i lamenti che provenivano dal castello.

Pego osservava la scena con gli occhi spalancati, ma stranamente sembrava più eccitato che spaventato.

 
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