Qualche tempo fa, leggendo un libro di un famoso autore italiano ho finalmente potuto sperimentare su
me stesso un fenomeno da tempo sospettato, ma mai adeguatamente considerato.
Il libro conteneva la seconda edizione di un noto romanzo, e nella prefazione l'autore
coglieva l'occasione di rispondere ai dubbi di un critico che aveva recensito l'opera
nella sua prima edizione
(Nota bene: per avere una simile possibilità è necessario non solo pubblicare
un libro, ma addirittura attirare l'attenzione di un critico e vendere abbastanza da motivare una
seconda edizione con tanto di reimpaginazione)
.
Nel romanzo vero e proprio l'autore dimostra la propria abilità nel proiettare ogni pensiero sulla pagina
stampata con una precisione per me inconcepibile.
La lettura di un suo libro è
fonte di doppio piacere: quello di saper cogliere ciò che l'autore vuole comunicare nell'immediato
e l'altro, più sottile, consistente nella scoperta continua di un modo di esporre pensieri
e fatti molto più semplice di quello che userei io stesso.
Insomma, davanti a una sua frase è lecito
chiedersi "Perché l'ha detto?", ma nessuno si chiederebbe mai "Che cos'avrà voluto dire?"
Sono
dunque
certo di aver compreso la risposta al critico contenuta nella prefazione del libro, nella quale
l'autore segue una vena ironica garbata, ma decisa, che vorrebbe portare l'interlocutore
contumace a scoprire che le risposte
ai dubbi esposti in altra sede sono tutte lì, in piena vista.
Ebbene, se la stessa prefazione non venisse letta
con quella chiave ironica, tutto il castello difensivo crollerebbe, e ci parrebbe di trovarci di fronte a un autore
pervicacemente dedito alla difesa a oltranza del proprio lavoro.
Veniamo dunque al punto: e se quel critico non avesse colto l'intento ironico?
Come può l'autore esser
certo di non innescare una guerra di recensioni e prefazioni alle edizioni successive?
La risposta è semplice:
l'autore può contare sull'intelligenza del critico e dei propri lettori. Se un lettore fraintende e abbandona, non
avrebbe comunque tratto molto piacere dal libro, quindi è una perdita accettabile.
Se un critico non comprende
un autore e lo attacca... Beh, avete presente la faccenda della foglia che cade in un bosco dove nessuno la sente...
Il punto dolente, ahimé, è molto più serio: come mai
io mi sono posto quelle domande?
Perché ho avuto il dubbio che l'autore avrebbe dovuto farsi capire meglio? Cos'avrei scritto io, al suo posto?
La risposta a quest'ultima domanda è semplice, e la si trova nel vasto corpus della mia produzione letteraria
che va sotto il nome di "posta elettronica": io (
brivido, terrore, raccapriccio) avrei riempito quella prefazione di
puntievirgola/meno/chiuseparentesi.
(un minuto di silenzio e raccoglimento, per favore)
La faccina, alias smiley, alias emoticon, è forse uno dei segni più evidenti dell'imbarbarimento
(o rimbambimento)
delle mie capacità espressive, e con le mie quelle di buona parte dell'umanità. Essa vorrebbe sostituire l'espressione facciale
e l'intonazione che, nell'interazione diretta, veicolano la chiave di lettura delle parole mentre queste vengono
pronunciate
(gli informatici seri li chiamerebbero dati fuori-banda, quelli meno seri parlerebbero di metadati)
.
Si tratta di
un ausilio per chi è troppo pigro per rifinire una frase scritta, e Mi riconosco in entrambe le figure: se scrivo un'affermazione troppo
categorica,
strizzo l'occhio come per non essere preso sul serio;
se mi voglio mostrare dispiaciuto,
aggiungo una faccina
triste a significare che non sottintendo alcuna ironia;
quando noto un fatto divertente, quando voglio deridere o stigmatizzare...
Ogni occasione ha la propria faccina.
Un tempo, quando nella mia cerchia ero un pioniere di Internet, l'uso oculato
di faccine mi conferiva un'aura da guru, ma quei tempi sono ormai perduti in un settembre senza fine.
Una volta identificata la causa di un problema, una soluzione radicale è sempre a portata di mano: tagliare.
Purtroppo, le faccine sono
la conseguenza di fattori ben più profondi e difficili da estirpare. Decidere di non usare più le faccine
equivale a rimuovere un effetto fra i tanti, e non la causa del male.
Come quelle mamme che non appena hai la febbre ti impongono
l'antipiretico, e ti costringono a prenderlo a oltranza sennò la febbre ritorna, incapaci di distinguere fra
il legittimo sollievo dei sintomi e la cura (prima o poi scriverò anche di questo).
D'altro canto, lo sforzo richiesto da un messaggio senza faccine costituirebbe un valido allenamento,
un metodo per rieducare alla parola scritta senza mediazioni di tipo emotivo che non appartengono alla
scrittura.
Insomma, se nei secoli passati nessuno ha mai sentito il bisogno di scrivere una sequenza
di interpunzioni, perché ora le cose debbono cambiare? Solo perché c'è più gente che scrive, e il livello qualitativo
s'è abbassato? Beh, chi può lo risollevi!
Una volta presa questa decisione,
mi sono chiesto se preparare una "firma" per i miei messaggi di posta elettronica. Ad esempio:
This e-mail is emoticon-free.
If you feel uneasy with this message, please read http://rasomuro.org/20081011/
Questa firma, però, altro non è che un grosso "meta-emoticon", una rinuncia alla responsabilità di quanto scritto
nel messaggio, senza alcuna discriminazione fra le varie parti.
Se qualcuno resterà offeso, o non coglierà
l'ironia dove questa era intesa, o ne coglierà in passi assolutamente seri, ne sopporterò le conseguenze.
In fondo,
che cosa conta il rispetto delle persone di fronte alla possibilità di recuperare le proprie capacità espressive?
E cosa conta il rispetto delle persone che non capiscono che la frase precedente è volutamente esagerata?
Quest'ultima frase, per inciso, è nuovamente un meta-emoticon, segno che non riesco ancora ad affidarmi all'intelligenza di chi
mi legge, e sento il bisogno di precisare "No, dài: scherzavo".
Forse non c'è nulla da fare...