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R.

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Chi siamo?
31 marzo 2009

Avvertenza:
Questo stralcio autobiografico è stato scritto dall'autore senza il consenso del cervello: in particolare, i neuroni dell'emisfero cerebrale sinistro non concordano su molte affermazioni dell'autore e hanno dunque deciso una serie di scioperi, il primo dei quali sarà sostenuto dai compagni dell'area di Broca, che permetteranno all'autore la pronuncia della sola parola “catarifrangente” per tre giorni.

 

Ritengo che il fatto di avere ormai trentanove anni non mi dia il diritto di giudicare gli altri, ma sia una semplice conseguenza del fatto che sono nato nel 1969. Posso però giudicare me stesso, a patto di pregiudicare la digestione della cena di stasera. Per parlare di me stesso, però, debbo prima parlare delle mie radici.

Eravamo una famiglia molto, molto povera. Mio padre vendeva alici sott'olio alle congregazioni anabattiste della città dove abitavamo (per un totale di tre clienti, figli di americani anticonformisti immigrati all'inizio del secolo in Italia), e i soldi che ne ricavava erano appena sufficienti a pagare le bollette del gas che mia madre, in vena di mancati suicidi a giorni alterni, gli procurava. A quel tempo, nessuno psicologo era ancora venuto a dirci che mia madre si comportava così per un innato bisogno di imporre la propria personalità. Quando finalmente qualcuno ce lo disse gli pagammo una salata parcella, poi scoprimmo che era l'idraulico venuto per sostituire lo sciacquone, e dovemmo pagare anche quello.

Ricordo come fosse ieri il giorno che venne a farci visita, a sorpresa, zia Pina. Tutti eravamo dediti alle nostre usuali occupazioni; mio padre inscatolava le alici parlando loro con una tenerezza inusuale, mia madre aveva infilato la testa nel forno, la mia sorellina tagliava i capelli alla preziosa bambola di ceramica in bilico sullo scaffale più alto della libreria, mentre io ero appena entrato in bagno per lavarmi. Mi ero appena spogliato, quando sentimmo una serie di colpi alla porta.

All'udire quei colpi, fu il panico. Dovete sapere che la nostra famiglia conserva di generazione in generazione il racconto del giorno in cui il mio trisavolo Luigi ricevette la visita di un secondo cugino che abitava a due isolati da lui. La visita si risolse in una stretta di mano, un paio di frasi e la degustazione di una bottiglia di vino. Il fatto che, nonostante quella visita non avesse nulla di eccezionale, il suo ricordo si sia tramandato la dice lunga sulla frequenza con cui la mia famiglia riceveva ospiti.

Fu il panico, dicevo. A mio padre sgusciò di mano una scatoletta che si rovesciò a terra con tutto il contenuto di olio. Mia madre, in procinto di aprire il gas per il suo solito tentato suicidio (l'idraulico sarebbe venuto di lì a un paio d'anni), ebbe un sussulto e andò a sbattere con la testa contro la parete superiore del forno riuscendo a svenire (fu un mezzo successo per lei, che in genere non rimediava nemmeno un mal di testa). La preziosa bambola in ceramica riuscì finalmente a sfuggire alle grinfie della mia sorellina preferendo una fine rapida alle sue torture e si infranse a terra. Per un pelo non riuscì a trascinare con sè mia sorella, la quale si aggrappò al bordo dello scaffale a due metri dal suolo e cominciò a urlare che la si tirasse giù.
Mio padre non riusciva a trovare in nessun posto il piede di porco necessario ad aprire la porta, dunque cominciò a chiamarmi a gran voce, perché solo io conoscevo la manovra necessaria ad aprirla senza forzarla. Abbandonai il proposito di lavarmi e cominciai a rivestirmi, ma scivolai sulla saponetta che avevo appoggiato a terra e che sfrecciò dalla finestra aperta (non la vidi mai più, ma seppi che aveva trovato un'occupazione dignitosa alla lavanderia Chang-Li di Anversa); caddi a terra dalla parte sbagliata (la faccia) e, essendo il pavimento del bagno formato di vecchie travi sconnesse, mi piantai addosso una miriade di schegge. Stoicamente incurante del dolore, tornai a vestirmi. Presi la camicia nuova e la indossai. Malauguratamente, uno spillo dimenticato mi tracciò uno sfregio a forma di chiave di violino sulla schiena. Il sangue, uscendo copioso, impresse curiosi disegni sulla camicia bianca.
Intanto mio padre aveva scoperto lo svenimento di mia madre e era corso verso di lei con una boccetta di ammoniaca scivolando sull'olio delle alici e finendo a terra sui cocci della non più preziosa bambola di ceramica. L'ammoniaca impregnò i vestiti di mia madre che si svegliò di colpo e prese a tossire con violenza.

Io ero riuscito a uscire dal bagno. Con smorfie che mal celavano la sofferenza impostami dallo spillo dimenticato andai alla porta. Per quanto la colpissi, però, non volle saperne di aprirsi. Fuori, zia Pina si era ormai abbandonata a un linguaggio scurrile sicuramente indegno di una gentile signorina quale la credevamo (non avevamo ancora visto il suo certificato penale, da lei gelosamente custodito nella sua cassaforte insieme a un cannello ossidrico e a trecento miliardi di lire rubati con un sistema ingegnoso ma terribilmente cruento dal caveau della banca d'Italia).
Fummo costretti a farla entrare dalla finestra, un pertugio che non lasciava passare nemmeno l'aria, figuriamoci una signora di centocinquanta chili!

Dopo l'ingresso di zia Pina la scena vedeva dunque da una parte mia zia, afflosciata su una seggiola che minacciava di cedere da un momento all'altro riversando centocinquanta chili di ciccia sul pavimento pericolante; dall'altra noi. A ogni movimento, mio padre faceva tintinnare i frammenti della bambola di ceramica che si erano infilati sotto i suoi abiti e emanava un forte odore di pesce; era stato inoltre preso dal suo tic caratteristico, consistente nell'emissione di sonori trilli da soprano che entravano in risonanza con le lenti dei suoi occhiali, incrinandole. Mia madre barcollava con gli occhi fuori dalle orbite, tossiva pezzi interi di polmone ed emanava un lezzo di ammoniaca che avrebbe resuscitato mio zio Arturo (il cui cadavere era stato metodicamente sminuzzato e chiuso in una miriade di scatolette di mentine sepolte una per una nella vasta proprietà che i suoi figli cercavano in tal modo di ereditare). Io continuavo a contorcermi dietro suggerimento dello spillo piantato tra le mie costole, mentre una pozza di sangue si allargava ai miei piedi. La mia sorellina, cui nessuno di noi aveva ancora fatto caso, gridava disperata sgambettando appesa all'orlo dello scaffale ormai inclinato di quarantacinque gradi. Eppure dovevamo sorriderci l'un l'altro soffocando il dolore.

Ne valse la pena? Ecco una delle domande fondamentali della vita. Le quattro domande una risposta alle quali renderebbe la vita migliore sono: “Chi siamo?”, “Perché esistiamo?”, “Ne valse la pena?” e “Ti sei fatto male?”. A dire il vero, un mio amico ha formulato una parziale risposta alla quarta domanda, ma è bene che i bambini non la sentano. In fondo, l'uomo sa vivere benissimo discutendo questi problemi al bar della vita, piluccando salatini esistenziali innaffiandoli della birra spirituale del tempo che passa...

Ah, il tempo... Quante domande su di lui, inafferrabile, intoccabile, soggettivo eppure libero e sempre in corsa... Quante discussioni... Finché non si fece offrire da bere e mi spiegò bene tutta la questione. Disse che stava bene, e mi consigliò di starmene alla larga da Jim Joogah, almeno finché la mafia che controlla i circhi di pulci ammaestrate non fosse stata debellata dalle forze dell'ordine. Non conoscevo nessun Jim, ma quando gli chiesi spiegazioni fuggì via, urlando “Non si può fermare il tempo!”

 
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